RECENSIONE | The Mitchells Vs The Machines

A volte penso che siamo giunti ad un punto di non ritorno, in cui ci ritroviamo a vedere bene o male sempre le stesse storie e gli stessi film, con giusto qualche nuova declinazione ma con ben poche differenze, che mi lasciano un senso di già visto che inevitabilmente influenza il mio giudizio. Mi capita sempre più spesso di arrivare ai titoli di coda poco coinvolto, perfino annoiato, sebbene il film che sto guardando sia indubbiamente realizzato con tutti i crismi del caso. A causa di quella che potremmo definire “pigrizia creativa” mi ritrovo quindi non solo ad eliminare mentalmente la visione di tanti film e serie tv che ho appena visto, ma anche ad essere sempre più prevenuto nei confronti delle nuove opere che vado a guardare.

Poi però ti capita di incappare in un film capace di farti ricredere totalmente, di ridarti piena fiducia negli Studios e di mantenere viva la passione per il cinema d’animazione. Se penso ai film che negli ultimi anni hanno sortito questo effetto su di me, i primi che mi vengono in mente sono Klaus, Soul, Your Name, Wolfwalkers o Spiderman Into the Spider-Verse. A questo giro il film è stato The Mitchells VS. The Machine.

Ad un primo sguardo questo film poteva destare poco interesse: una commedia, con tutti i pregiudizi che un film d’animazione comico si trascina dietro, che tratta temi più e più volte affrontati come quello del rapporto tra l’uomo e la macchina o dello scontro generazionale tra genitori e figli. Eppure questi elementi, pur presenti nel film, non sono ciò di cui la storia dei Mitchell ci vuole davvero parlare, una storia molto più personale di quello che sembra, e decisamente trasversale, capace di parlare ad un pubblico ampio ed in grado di toccare delle corde profonde e assopite in molti spettatori.

Scritto e diretto da Mike Rianda e Jeff Rowe e prodotto dai Sony Animation Studios, Mitchell contro le macchine (che io però chiamerò per tutta la recensione The Mitchells) è un film del 2021 e approdato su Netflix, invece che al cinema, a seguito dei continui rimandi dovuti all’emergenza sanitaria globale.

Divenuto di recente il film d’animazione più visto sul noto servizio streaming (per intenderci, in brevissimo tempo ha superato film d’animazione originali di successo come Klaus, La Famiglia Willoughby e Over the Moon), la storia inizia quando Katie Mitchell, una ragazza alternativa e particolarmente creativa, viene ammessa alla scuola di cinema dei suoi sogni. Lei non vede letteralmente l’ora di lasciare casa ma a frenare il suo impetuoso desiderio di emancipazione arriva il padre di Katie, Rick, che da grande amante della natura insiste affinché tutta la famiglia la accompagni alla nuova scuola in un ultimo viaggio on the road. Da subito si creano forti tensioni famigliari, e proprio quando le cose sembrano non poter andare peggio la famiglia Mitchell si ritrova nel bel mezzo di una rivolta di robot: tutti gli oggetti tecnologici del pianeta, dagli smartphone agli aspirapolveri, vengono ingaggiati da un sistema operativo denominato PAL con l’obiettivo di catturare ogni essere umano. Riusciranno i Mitchell ad appianare le loro divergenze interne per affrontare l’invasione di robot come una famiglia unita?

Partiamo da alcuni elementi che ci possono aiutare a posizionare questo film nella schiera di opere meravigliose che il cinema d’animazione ci sta donando negli ultimi anni: intanto partiamo da Mike Rianda e Jeff Rowe, i due co-registi e co-sceneggiatori del film.

Se entrambi hanno lavorato come sceneggiatori nella fortunatissima serie Disney Gravity Falls, Rianda può vantare nel suo curriculum anche la regia di alcuni cortometraggi, mentre Rowe, oltre ad aver sceneggiato numerose puntate della serie Netflix Disincanto, sarà il regista del prossimo film in CG delle Tartarughe Ninja attualmente in pre-produzione e previsto per il 2023.

Ad affiancare il duo di registi, entrambi al loro esordio alla regia di un lungometraggio, troviamo Kurt Albrecht, storico produttore della Sony Pictures, e il magico duo Phil Lord e Christopher Miller registi di film come Piovono Polpette, Lego Movie e Spider-Man: Into the Spider-Verse. Infine, a realizzare il tutto ci ha pensato il team dei Sony Animation, lo studio che ha realizzato film come Hotel Transilvania, o i già citati Piovono Polpette e Spider-Verse. Insomma, da questo insieme di talenti a dir poco esplosivo era lecito attendersi un film incredibile, e così è stato.

Come accennato poc’anzi ad un primo impatto la trama potrebbe dirci poco. Il rapporto tra umani e macchine è stato affrontato innumerevoli volte negli ultimi anni, così come le critiche verso la dipendenza alla tecnologia o l’uso che se ne fa: in Wall•E gli umani sono rappresentati come una razza di pigri esseri incapaci di compiere, senza l’ausilio di macchinari, le più basilari azioni come muoversi o mangiare, in Big Hero 6 viene creato Baymax, un infermiere-robot il cui scopo originario era quello di curare i malati, finché Hiro, il protagonista, spinto dal senso di vendetta, non ne modifica le impostazioni base per renderlo un robot d’assalto. Il mega robot d’acciaio che dà il titolo al film Il gigante di ferro nasceva come arma di distruzione di massa, e solo l’influenza del giovane Hogarth farà nascere in lui il senso di cosa è giusto e cosa è sbagliato, il rispetto e la difesa della vita e l’istinto di protezione verso gli altri.

L’elenco potrebbe proseguire pressoché all’infinito, soprattutto considerando come, negli ultimi anni, moltissimi film d’animazione hanno inserito al loro interno rappresentazioni sul rapporto che abbiamo con la tecnologia e, soprattutto, coi social network. Quindi perché The Mitchells è diverso dagli altri? Perché colpisce in maniera differente?

Quello del rapporto con la tecnologia si rivela essere un espediente, effettivamente calzante e ben riuscito, per arrivare a parlare del rapporto tra genitori e figli e, più nello specifico, tra padre e figlia, un tipo di rapporto che spesso nei film d’animazione vive una sudditanza a stilemi ben definiti che portano a banalizzarne un po’ i concetti: quello della figlia è un ruolo che spesso si riduce ad un personaggio fragile e indifeso, che proprio il padre sente di dover proteggere, oppure (come vediamo spesso negli ultimi anni), la figlia è una giovane ribelle che si scontra con la figura patriarcale di turno, che rifiuta ruoli o compiti che le vengono assegnati dall’alto, che si allontana da quei suggerimenti che arrivano da chi ha più esperienza di lei. Quello tra Katie e Rick, sotto alcuni punti di vista, è un legame che rispetta questa tradizione sul rapporto padre e figlia: Rick si preoccupa per il futuro di Katie, come il Sultano di Agrabah si preoccupava di trovare un marito per Jasmine o Re Tritone che Ariel non si avvicinasse agli umani. Ecco che viene quindi confermata quella figura volta a tutelare la figlia, a prescindere che essa sia effettivamente bisognosa di protezione: Rick disapprova la scelta della figlia di voler fare cinema, quello per lui è un mondo incerto che non le darà felicità e soddisfazioni nella vita. Katie, dal canto suo, crede fermamente in ciò che vuole fare, ha ben chiaro dove vuole arrivare e in quale modo, come una moderna Belle che non vuole sottomettersi ad imposizioni, e per farlo decide di non guardare in faccia a niente e a nessuno. Ecco perché in più di un momento nel film percepiamo come per Katie l’affetto nei confronti del padre è quasi un freno, un impedimento alla sua felicità, qualcosa di irrilevante e facoltativo.

Ciò che ho trovato davvero nuovo in questa pellicola, rispetto ai centinaia di film animati (e non) usciti negli ultimi anni, è proprio la rappresentazione del rapporto tra questi due personaggi e, in generale, delle dinamiche familiari che senza falsi moralismi sono genuine e assolutamente assimilabili per lo spettatore: esistono, nella vita vera, persone come Rick e Katie.

L’ottima scrittura di questo film fa sì che da spettatori ci riconosciamo in questi personaggi, li apprezziamo per i loro aspetti positivi nonostante siano ben visibili quelli negativi. Da un lato Katie col suo modo di (non) dimostrare affetto, dall’altro Rick che cerca in tutti i modi di passare più tempo possibile con la figlia ma spreca quel tempo a discuterci per imporre la sua visione del mondo. Da un lato Katie, che segretamente ambisce a fare colpo su suo padre con uno dei suoi film, dall’altro Rick che ha sacrificato il sogno di una vita per prendersi cura dei figli. Persone (…ops, personaggi) fondamentalmente buone, che si vogliono profondamente bene, ma che non sanno come dimostrarselo, e che nel provarci fanno e dicono sempre la cosa sbagliata. Il nocciolo del film è proprio questo: la frattura che si crea tra Katie e suo padre a causa della loro mancanza di comunicazione.

Tra questi due giganteschi e magnifici personaggi troviamo anche Linda, la mamma che vive nel senso di perpetua inferiorità nei confronti dei vicini di casa, e Aaron, fratello minore di Katie con una strana fissazione per i dinosauri. Se da un lato è vero che Rick e Katie sono al centro della narrazione, e il loro legame è ciò che segna le sorti di tutta la storia, dall’altro il ruolo di Linda e Aaron è quello di mantenere un certo equilibrio all’interno delle dinamiche famigliari. Spesso è Linda che spinge Rick a ricongiungersi con la figlia dopo una discussione, come fa Aaron con la sorella. Menzione a parte per Monchi, il carlino strabico e particolarmente imbranato protagonista di alcuni dei momenti più spassosi del film e che si inserisce nel contesto di una famiglia sì molto particolare, ma anche molto realistica, in cui è facile rispecchiarsi.

Sulla scia del lavoro certosino fatto per dare credibilità ai personaggi e alle loro dinamiche, l’aspetto grafico del film è una profusione infinita di dettagli, a partire dalla casa dei Mithcells, il luogo in cui si svolge la prima parte del film. Se vogliamo essere riduttivi, quella dei Mitchells è la rappresentazione di una tipica casa suburbana del Michigan ma a conti fatti è come se nel film fossero andati con una telecamera da una persona a caso, all’improvviso, e avessero chiesto di aprire la porta e fare un giro tra le stanze senza preavviso, e senza che si potesse riordinare nulla: non balza all’occhio tanto il fatto che gli artisti di questo film hanno creato ambienti ricolmi di caos e disordine, piuttosto si viene catturati dalla meticolosa attenzione al più piccolo dettaglio. Ogni oggetto, in uso o fuori posto, ci racconta qualcosa: dalla coperta appoggiata alla poltrona, alla cesta di vestiti da piegare, la spazzatura sul marciapiede o le cianfrusaglie di fianco al garage. Ci sono segni di matita sui muri e ciarpame sulle mensole, rotoli di carta igienica a penzoloni in bagno e letti disfatti nelle camere. Siamo abituati a vedere case patinate e tirate a lucido in ogni serie tv o film, e quando vengono rappresentate case come quella dei Mitchells l’intento, di solito, è quello di trasmettere una sorta di degrado, un’anomalia di quella che è la normalità dell’ordine in una casa: pensate ad esempio, per chi la conosce, alla serie tv Malcom, in cui la casa era volutamente mostrata come abbandonata a sé stessa in rapporto alle case dei vicini.

Ecco, qui non percepiamo questo messaggio, la casa dei Mitchells potrebbe essere la nostra casa in un momento in cui siamo particolarmente pigri e disordinati. Guardando questo film non si percepisce il degrado, quanto il realismo di una casa che trasmette verità, una casa in cui i personaggi vivono per davvero. Mike Rianda e il suo team hanno rappresentato l’ambiente domestico in maniera onesta e pienamente realistica, con ogni probabilità ispirandosi alle proprie abitazioni, allontanandosi dal modello di residenze incontaminate e ordinate che il pubblico è abituato a vedere di solito nei film.

Tra gli ambienti della casa dei Mitchells quello senza dubbio più iconico e che personalmente mi ha colpito maggiormente è la camera di Katie, il luogo in cui la sua creatività senza freni ha contaminato ogni superficie, dalle pareti al letto al pavimento. Questa camera però non è, come potremo aspettarci, il porto sicuro in cui una ragazza che non si sente compresa e accettata va a rifugiarsi: Katie vuole fuggire, vuole iniziare a percorrere la sua strada, lasciarsi quel mondo, quella casa e quella camera alle spalle.

Il modo in cui entriamo in contatto col mondo di Katie, col suo modo di vedere il mondo, è talmente potente che in un primo momento è quasi destabilizzante. Le immagini esplodono in maniera incontrollata, si appropriano dello spazio dello schermo, ingombrano, bruciano, macchiano. Contaminano ciò che vediamo, e ciò che vediamo attraverso gli occhi di Katie, quando Katie riprende col suo cellulare o si lascia guidare dalla sua immaginazione, è continuamente sorprendente. Per queste scene Rianda ha voluto un look che potremo definire “acquerello dipinto a mano”, risultato di un’ulteriore evoluzione di ciò che abbiamo visto nei film precedenti dei Sony Animation.

Gran parte della tecnologia utilizzata per Spider-Man: Into the Spider-Verse, infatti, è stata riutilizzata per The Mitchells e, in aggiunta ai software già esistenti, nuovi strumenti sono stati creati. A differenza delle immagini e delle tecniche che ricreavano la sensazione visiva di fumetto in Into the Spider-Verse, per The Mitchells si è optato per l’uso prevalentemente di effetti in stile 2D che imitano l’aspetto dei film d’animazione tradizionale, inclusi gli scarabocchi nei bordi che disegnano i personaggi, o le pennellate ad acquerello per elementi come alberi e cespugli. Infine, per enfatizzare le emozioni di Katie, il team ha elaborato una tecnica che implementa filmati 2D e live-action insieme all’animazione CG, tecnica che è stata chiamata appunto “Katie-Vision“.

Anche nella rappresentazione dei robot sono state usate tecniche e stili diversi, per acuire le differenze con gli esseri umani: per i robot al comando dell’intelligenza artificiale PAL, gli animatori hanno virato verso un design più elegante e raffinato in contrasto con lo stile acquerello per gli umani.

Immagino quanto deve essere stato stimolante, per gli animatori e gli artisti che hanno lavorato a questo film, sentirsi pienamente liberi di poter fare praticamente qualsiasi cosa, sorprendendo continuamente lo spettatore, utilizzando ogni tipo di tecnica animata possibile, andando a lavorare sul ritmo, sulle citazioni, pur mantenendo una fluidità della storia estremamente pulita, senza che ci si annoi e senza che sia troppo il rumore che sentiamo.

Probabilmente la maggior parte di chi ha lavorato al film ha messo molto di sé stesso nel personaggio di Katie, nel rapporto che ha con suo padre Rick. Quella della protagonista di questo film che lotta per raggiungere il sogno di lavorare nel cinema è, con tutta probabilità, la vera storia di tutti quelli che a questo film ci hanno lavorato. Ed è probabilmente questo il motivo per cui è pressoché impossibile non sentirsi coinvolti guardando The Mitchells vs. the Machines.

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