PIXAR | VOLUME 1 : Toy Story

Parlare di Toy Story non è mai semplice: un film che non solo ha segnato un prima e un dopo, ma che ha cambiato in modo irreversibile il mondo dell’animazione in maniera netta e rapida come mai è successo nella storia. Un’opera che fino a pochissimi anni prima del suo arrivo nei cinema veniva vista (nelle migliori delle ipotesi) come estremamente rischiosa, per alcuni versi addirittura fallimentare. Un intero film, dagli sfondi ai personaggi umani, animati esclusivamente al pc, senza nessun tipo di riferimento visivo a quello che il pubblico, fino a quel momento, aveva imparato ad apprezzare, ovvero l’animazione tradizionale, senza alcuna familiarità che aveva fatto dei lungometraggi animati una parte imprescindibile del cinema fino a quel momento.

Proprio per il grandissimo salto nel vuoto compiuto dalla Pixar, nel voler perseguire con la realizzazione di un film considerato da alcuni a dir poco sconsiderato, agli occhi di molti la “follia” di Toy Story è l’esatta replica in chiave moderna di quella compiuta da Walt Disney col suo Biancaneve e i sette nani.

La nascita di Toy Story

Se è vero che alcuni potrebbero storcere il naso all’idea di paragonare questi film, per ciò che concerne le innovazioni che hanno portato nell’industria cinematografica e la lungimiranza di chi li ha realizzati, è altresì vero che dall’arrivo di Toy Story nei cinema il mondo dell’animazione non è stato più lo stesso, così come il mondo del cinema non fu più lo stesso dopo l’uscita di Biancaneve, e se parliamo di Toy Story è giusto parlare anche di come, e perché, questo film è arrivato nelle sale, indagando le origini di quello che è diventato a tutti gli effetti un fenomeno.

Quando Biancaneve e i sette nani arrivava al cinema, si portava una lunga scia di ansie accumulate in anni di produzione. Il primo lungometraggio animato della storia non era solo un investimento estremamente costoso: una delle più grandi paure dei produttori, dei finanziatori e dei realizzatori stessi di quel film dipendeva dal rischio di non riuscire a coinvolgere il pubblico nelle vicende di un personaggio animato. Gli spettatori avrebbero temuto per la vita della protagonista? Avrebbero pianto nei momenti drammatici? Avrebbero esultato per la sconfitta della cattiva? Immaginatevi di lavorare per anni, con ritmi estenuanti se siete animatori, a un film che la stampa definisce un suicidio commerciale. Immaginatevi con quale spirito Walt Disney chiese di accendere una seconda ipoteca sulla sua casa per finanziare il film, mentre la moglie Lillian, in tutto il suo scetticismo, dichiarava pubblicamente “nessuno andrà a pagare un centesimo per vedere l’immagine di un nano”1.

Queste preoccupazioni, unite al fatto che il lungometraggio passò da un budget preventivato di 250.000 dollari ad uno finale di 1.500.000 dollari, danno forse l’idea del perché, all’uscita di Biancaneve al cinema, Walt Disney venisse definito bonariamente un folle da più parti.

Certo, gli anni ’90 non sono gli anni ’30. Quando Disney si prodigò per realizzare il suo primo lungometraggio il pubblico viveva nel pieno boom dell’intrattenimento cinematografico, appena 15 anni prima veniva distribuito il primo film a colori di Hollywood, mentre il primo film sonoro era uscito da nemmeno 10 anni. Biancaneve vide la luce in un periodo di fortissima sperimentazione e di continui cambiamenti. Di contro, Toy Story è uno dei tanti film arrivato tra la fine degli anni ’80 in poi che fa sua la rivoluzione degli effetti speciali, della computer grafica e delle innovazioni tecnologiche. Sempre un terreno fertile per ciò che riguarda la sperimentazione, certo, ma con un pubblico totalmente differente, per certi versi disilluso, e che di lì a poco avrebbe dimostrato di essersi quasi stanco dell’animazione. Decidere di investire in una forma di intrattenimento così diversa da quella a cui le persone erano abituate da sempre, in una forma definibile come sperimentale, è stato un grosso rischio.

Come mai dunque Toy Story è stato realizzato, se sulla carta sembrava una costosissima follia?

Per rispondere a questa domanda bisogna conoscere le menti dietro a questo film, coloro che hanno creduto fin dal primo momento nelle possibilità offerte dalla computer grafica, e che non hanno smesso di sostenerne il progetto nemmeno nei momenti più difficili. E non si può iniziare a parlare di Toy Story senza cominciare dal suo regista, ovvero John Lasseter.

Il papà di Woody e Buzz

Da sempre desideroso di diventare un animatore, Lasseter si iscrive al corso di animazione dei personaggi presso il California Institute of the Arts (CalArts) nel 1975. Qui, oltre ad affinare le sue tecniche, conosce alcuni futuri registi e animatori come Brad Bird, John Musker, Henry Selick, Tim Burton e Chris Buck.

Dopo la sua laurea nel 1979 Lasseter ottiene immediatamente un lavoro come animatore presso i Walt Disney Production. Il posto era molto ambito (solo 150 degli oltre 10.000 candidati arrivati dalla CalArts vennero selezionati per essere assunti alla Disney, e di questi solo 45 vennero poi confermati insieme a lui); inoltre essere parte della Disney, in quegli anni, significava lavorare per il più grande studio cinematografico nel campo dell’animazione al mondo. Tuttavia Lasseter si accorge ben presto che quel posto non fa per lui: la vena creativa che aveva portato la Disney, appena qualche anno prima, a realizzare film d’animazione indimenticabili come Il libro della giungla e La carica dei 101 sembra essersi esaurita e dalla morte di Walt Disney in poi è difficile trovare quell’innovazione tipica dei primi decenni dello studio d’animazione. Parallelamente, in quegli anni, dei colleghi mostrano a Lasseter alcune animazioni di Tron, il celebre film cult fantascientifico che ha fatto la storia degli effetti visivi. La scena delle motociclette che corrono nella realtà virtuale getta il seme di un’idea in John Lasseter: i computer potevano essere utilizzati per realizzare film con sfondi tridimensionali, raggiungendo un livello di profondità visivamente sbalorditiva mai raggiunto prima.

Come fare, però, per finanziare qualcosa di così rivoluzionario? Lasseter aveva intravisto un potenziale incredibile, ma sarebbe riuscito a coinvolgere altre persone in questo progetto? La Disney non sembrava affatto intenzionata a seguire una strada così innovativa e, giudicando troppo rischiosi i progetti proposti da Lasseter, nel 1984 scioglie il suo contratto.

È qui che entrano in scena due nuovi personaggi: Alvy Ray Smith e Ed Catmull, che in quegli anni erano entrambi impiegati presso la Lucasfilm Computer Graphics Group. Lasseter era entrato in contatto con loro mentre lavorava ad uno dei progetti da proporre alla Disney, e i due, vedendo nelle sue idee del potenziale, decisero di sfruttare il fatto che fosse stato licenziato dalla Disney per assumerlo come freelance. Fu così che Lasseter si unì a Smith e Catmull e, lavorando in team, gettarono le basi per quello che sarebbe diventato il primo cortometraggio animato al computer: Le avventure di André e Wally B. Sebbene l’idea alla base di questo corto provenisse da Lasseter, il contributo di Smith e Catmull fu essenziale, non solo dal punto di vista produttivo ma anche creativo. Ad esempio fu Catmull ad insistere perché anche i personaggi venissero animati al computer, mentre in un primo momento l’idea di Lasseter era quella di realizzare solamente gli sfondi al pc e sovrapporre personaggi animati tradizionalmente. Questo cortometraggio, uscito il 25 luglio 1984, e considerato rivoluzionario per l’epoca, dimostrò non solo che era possibile animare dei personaggi interamente al computer, dando maggior spinta all’idea di realizzare un lungometraggio d’animazione interamente al pc, ma fu un banco di prova per la collaborazione tra Lasseter, Alvy Ray Smith ed Ed Catmull, tre delle persone che dettero vita ai Pixar Animation Studios

Pixar: la casa delle nuove idee

Nel 1986 vengono appunto fondati i Pixar Animation Studios, guidati dal presidente Ed Catmull e dal vicepresidente Alvy Ray Smith, e con Lasseter come dipendente fondatore, mentre la ricerca di investitori da parte di George Lucas si conclude con un’offerta di Steve Jobs, che diventa il proprietario dell’azienda. Grazie agli investimenti di Jobs, la Pixar inizia così il suo percorso che la porterà a diventare uno dei maggiori studi d’animazione al mondo. In meno di 10 anni, da quel fatidico momento, Toy Story sarebbe uscito al cinema. In tempistiche produttive, un battito di ciglia!

Nel 1988, Lasseter produce un nuovo cortometraggio, Tin Toy, che racconta le vicende di un giocattolo dal suo punto di vista. Questo corto vinse il Premio Oscar nel 1989 nella categoria di Miglior Cortometraggio d’Animazione diventando il primo corto, realizzato al computer, a vincere questo premio. Il successo intorno a questo cortometraggio inizia a fare rumore ed ecco che a bussare alla porta di Lassater è proprio la Disney, desiderosa di riaverlo nel suo team. Lasseter decide di rimanere fedele alla Pixar, ma da questo interessamento tra Disney e Pixar nasce un accordo, del tutto inedito, per la creazione di un lungometraggio: Pixar lo realizza e Disney lo distribuisce. Questo accordo, arrivato dopo lunghissime riunioni, non fu firmato a cuor leggero. Da una parte la Disney si affidava per la prima volta ad uno studio esterno per la realizzazione di un lungometraggio animato. Inoltre avrebbe prodotto (quindi, finanziato) qualcosa di mai visto prima, che avrebbe potuto molto probabilmente fallire. Dall’altro lato la Pixar iniziava a soffrire di seri problemi economici, e per garantire l’avvio del progetto fu costretta a consentire alla Disney di mantenere il controllo completo di film e personaggi, inclusi i diritti per realizzare sequel senza l’obbligo, da parte della Disney, di alcun coinvolgimento della Pixar. Gli accordi, per quanto sofferti, erano stati presi. Il primo, storico passo era stato fatto. Mancava solo una storia da raccontare. O forse no.

Già, perché in realtà, la storia c’era già: un film ispirato proprio al cortometraggio Tin Toy. Effettivamente in quel corto possiamo ritrovare moltissimi degli elementi che sarebbero poi tornati, maggiormente approfonditi, in Toy Story: un giocatolo protagonista che vive un’avventura mostrandocela dal suo punto di vista, con tanto di bebè visto come un gigante, che ha pieno controllo su di esso, c’è la paura di essere scoperti, c’è la magia di oggetti inanimati che prendono vita, c’è il divertimento delle gag.

Ecco che inizia quindi la scrittura della sceneggiatura, originariamente ad opera di Lasseter insieme a due giovanissimi Andrew Stanton e Pete Docter. Il primo trattamento della trama prevedeva che il protagonista del film fosse proprio Tinny, il giocattolo di latta di Tin Toy. Mentre la premessa del film riguardava ancora il desiderio dei giocattoli di essere giocati dai bambini, e vedeva a fianco di Tinny un co-protagonista, il resto della sceneggiatura era del tutto diverso. La Disney non erano soddisfatta della prima bozza, così il trio di sceneggiatori decise di puntare su una storia di amicizia, dando ai due personaggi principali personalità contrastanti e facendoli diventare amici solo dopo essere stati costretti a lavorare insieme. L’idea alla base stava emergendo, ma Lasseter non era ancora pienamente convinto dei protagonisti. Bisognava trovare il giusto duo di personaggi a cui affidare le redini del film.

Innanzi tutto serviva qualcosa di meno antiquato di un pupazzo di latta come protagonista, sebbene la dicotomia tra un giocattolo considerato più “vecchio” e uno moderno ricco di gadget e funzionalità è rimasta. Prima di diventare il vero Buzz Lightyear (nome che si ispira a quello dell’astronauta Buzz Aldrin), il Buzz che conosciamo, il suo design è stato modellato partendo dalle tute indossate dagli astronauti dell’Apollo e dalle action figures di G.I. Joe, mentre Woody era stato originariamente immaginato come un pupazzo per ventriloquo, per poi diventare il cowboy che tutti noi conosciamo. Gli sceneggiatori avevano così introdotto il contrasto tra il genere occidentale e quello di fantascienza, il moderno che avanza contrapposto al vintage classico. Un concetto che avrebbe acquisito una grandissima importanza in Toy Story, aprendo le porte a diversi temi come quello della memoria, dell’abbandono, della solitudine e del tempo che passa. Tutte tematiche che in Toy Story sono velate, abbastanza riconoscibili ma non opprimenti, e che sarebbero ritornate in moltissimi film della Pixar negli anni seguenti.

L’ingrediente segreto


1. Stephen Cavalier, Cartoon, Storia mondiale del cinema d’animazione, Atlante, 2011, p. 118

Una risposta a “PIXAR | VOLUME 1 : Toy Story”

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