RECENSIONE | Klaus

C’era moltissima attesa attorno al nuovo progetto animato targato Netflix dal titolo Klaus. Nell’ultimo periodo il colosso dello streaming ha deciso di investire in maniera sempre più massiccia nel comparto d’animazione, andando a raccogliere alcuni dei più grandi talenti esistenti e fondando un vero e proprio nuovo studio d’animazione. Già per quanto riguarda la serialità Netflix ha realizzato numerosi progetti interessanti e molto diversi tra loro, riesumando vecchie serie tv come She-Ra, Carmen Sandiego e I cavalieri dello zodiaco e producendone di totalmente nuove e originali come BoJack Horseman, Big Mouth e Love, Death & Robots andando incontro alle esigenze di un pubblico trasversale sempre più esigente di prodotti ben differenziati e targettizzati.

Se la risposta di Netflix alla crescente domanda del pubblico di serie tv è stata tutto sommato rapida e incisiva, non si può dire che abbia risposto allo stesso modo per quello che riguarda i lungometraggi d’animazione, almeno fino a questo momento. Klaus, annunciato come il grande ritorno da protagonista dell’animazione in 2D, ha fin da subito catalizzato l’interesse di tutti gli appassionati che negli ultimi anni chiedevano a gran voce ai maggiori studios americani (in particolare alla Disney) di non abbandonare quella tanto amata storica tecnica dei primi film animati.

Che dire dunque di questo attesissimo prodotto? È riuscita Netflix a realizzare il film che tanti di noi si aspettavano? Klaus si riduce solo ad uno sfoggio di tecnica o riesce ad essere, più in generale, un bel lungometraggio d’animazione?

Personalmente penso di poter affermare senza il minimo dubbio che Netflix è riuscita nel miracolo, riportando non solo l’animazione tradizionale al centro dell’interesse del pubblico, ma realizzando un film intelligente, ambizioso, scritto e diretto magnificamente e che sfoggia un comparto tecnico stupefacente. Ma andiamo con ordine.

La storia narra di Jesper, ragazzo viziato e nullafacente entrato nell’accademia postale solo grazie all’intervento del padre. Dopo aver dimostrato più volte di non meritare alcun privilegio a causa della sua natura superficiale e frivola, sarà proprio il padre a decidere di spedire Jesper come nuovo postino nel paesino dell’isola più remota dello stato: Smeerenburg. Il giovane potrà riscattare il suo status sociale a patto che riesca a recapitare seimila lettere entro un anno, altrimenti verrà spedito a lavorare nelle fogne.

Giunto a destinazione però Jesper scoprirà ben presto che Smeerenburg vive un clima decisamente ostico da affrontare, e non solo da un punto di vista meteorologico: la popolazione, divisa in due fazioni, vive una lotta senza tregua che sembra non conoscere limiti (uomini, donne e persino bambini si fanno la lotta in ogni momento e con ogni mezzo possibile) e, ovviamente, in questo clima di odio nessuno spedisce lettere. Persino l’insegnante della scuola, Alva, è stata costretta a reinventarsi come pescivendola per poter mettere da parte i soldi e lasciarsi per sempre quel posto alle spalle. Cercando disperatamente di elaborare un piano per convincere la città e la gente del posto a inviare lettere, Jesper incontra un boscaiolo di nome Klaus molto abile nella lavorazione del legno e con una casa piena zeppa di giocattoli fatti a mano. Una serie di eventi avvicinerà i due, costringendo Klaus ad affrontare i fantasmi del passato e Jesper a decidere se inseguire il proprio sogno di vita agiata o fare la cosa giusta.

Fare la cosa giusta”, una frase fatta che in questo film è analizzata e affrontata in maniera tutt’altro che banale. Mi è piaciuto molto come il regista Sergio Pablos si sia soffermato sull’intenzione che spinge i personaggi a compiere buone azioni. Se la frase “ogni azione buona ne genera un’altra” diventa presto un mantra che ritorna spesso durante il racconto, è anche vero che Klaus si rende conto fin da subito che nessun bambino si comporta bene in maniera disinteressata, ma solo per avere un regalo. Allo stesso modo Jesper diventa vittima delle sue buone azioni, che inizialmente mette in atto esclusivamente per il proprio tornaconto personale: che il suo comportamento generi un miglioramento nella vita degli abitanti di Smeerenburg è puramente casuale, lui vuole tornare alla sua vita comoda in città e fa di tutto per raggiungere l’obiettivo, compreso farsi amico Klaus.

La scrittura del film è geniale, ripescando ogni minimo elemento iconografico legato a Babbo Natale e rielaborandolo, andando a definire in maniera precisa e puntuale ogni riferimento che lo caratterizza. Scopriamo come nasce il suo vestito bianco e rosso, come sia nata l’idea di dare un giocattolo ai bambini buoni e del carbone a quelli cattivi, perché entra dal camino e perché corre su una slitta trainata da renne (ed il perché della leggenda che vede le renne “volare”). E, soprattutto, capiamo come mai Klaus ha tanto a cuore la felicità dei bambini.

La scoperta di tutti questi elementi, mostrati in modo così fluido e spontaneo, rende la storia talmente credibile da sembrare quasi un racconto vero, conservando però quell’alone di magia che caratterizza tipicamente una fiaba animata. Il personaggio di Babbo Natale passa così dall’essere una figura leggendaria ad un personaggio plausibilmente esistito, dato che ogni trovata è finemente funzionale e la messa in scena è così brillante.

Se quindi la scrittura di questo film è così vincente e dinamica, oltremodo precisa e coinvolgente tanto da trascinarci per tutta la sua durata, che cosa possiamo dire del suo lato tecnico? Davvero, non so da dove iniziare tante sono le cose positive su cui vorrei soffermarmi. Faccio quindi una digressione che servirà a capire l’importanza di questo film nell’attuale mondo dell’animazione.

Era il 2009 quando la Disney distribuì nei cinema di tutto il mondo La principessa e il ranocchio, il film che doveva riavvicinare il pubblico mainstream all’animazione tradizionale e che invece ne decretò la definitiva morte. Il pubblico aveva bocciato quel film e la Walt Disney lesse in quel flop una categorica presa di posizione da parte del pubblico: i film, per avere successo, dovevano essere realizzati in computer grafica. Da allora solo gli studios più piccoli (o quelli giapponesi) hanno continuato a realizzare lungometraggi in tecnica tradizionale, con buona pace di tutti gli animatori americani che invece col 2D avevano imparato a lavorare.

Sergio Pablos era uno di questi, potremmo definirlo un veterano della “vecchia scuola”. Lavorò a classici Disney come Il gobbo di Notre Dame, Hercules, Tarzan e Il pianeta del tesoro prima di passare ai film animati in CGI. Tanto la sua formazione negli studios Disney quando il suo pellegrinaggio alle moderne tecnologie d’animazione fu fondamentale per la sua formazione. Dopo aver lasciato i Walt Disney Animation Studios, e dopo il suo periodo a cavallo tra i film dell’Illumination e dei Blue Sky Studios, Pablos fonda una propria casa di produzione con l’obiettivo di esplorare come il mezzo animato si sarebbe potuto evolvere.

Ecco che per il look lo studio ha cercato di superare alcuni dei limiti tecnici che l’animazione tradizionale aveva, concentrandosi sull’illuminazione organica e volumetrica e texturing per dare al film un look unico, pur mantenendo una sensazione artigianale: in definitiva, nonostante l’ingente utilizzo di animazione tradizionale per la realizzazione del film, il risultato finito è un film in CGI che assomiglia in tutto e per tutto a un film in tecnica tradizionale.

Grazie ad un sapiente uso delle luci nelle scene più scure, delle ombre (in particolare sui volti dei personaggi), nella palette di colori per gli sfondi, ci si dimentica fin dalle prime immagini di essere davanti ad un film realizzato al computer e questo genera forse un interrogativo che può essere interessante da porsi: ha senso realizzare al computer un film che sembra fatto a mano? E perché al giorno d’oggi sembrano questi i prodotti più vincenti?

La risposta a questa domanda non riesco a darla, posso però giungere ad una conclusione: Klaus mi ha lasciato entusiasta e appagato come non mi capitava da tempo. Ennesimo, ottimo film realizzato da Netflix, che punta così all’Oscar 2020 ed entra come uno tsunami nel mondo dei lungometraggi animati. E, considerando i prossimi progetti che arriveranno sulla piattaforma in questo frangente, credo proprio che ne vedremo delle belle.

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