RECENSIONE | Dililì a Parigi

Prendete una storia dai forti tratti femministi, ambientatela nel periodo della belle époque, per la messa in scena utilizzate una sofisticata animazione ricercata e avvolgete il tutto con gli elementi di una storia thriller. Questi, in un certo senso, sono gli ingredienti dell’ultima fatica Michel Ocelot, già regista degli acclamati film Azur e Asmar e della saga di Kirikù . Ma come a volte accade quando pur seguendo la ricetta alla perfezione la nostra torta non viene come vorremmo, anche in questo film pur essendoci tutti gli elementi per farne un’ottimo prodotto d’animazione il risultato non è all’altezza delle aspettative.

Qui mi concentrerò nell’analizzare due punti in particolare di questo film, ovvero la trama e la tecnica utilizzata, entrambi aspetti che da un lato rendono Dililì a Parigi un prodotto decisamente innovativo, accattivante e profondamente originale nel panorama del cinema d’animazione contemporaneo, ma dall’altro non lasciano completamente il segno e nel complesso rischiano di coinvolgere solo in parte lo spettatore.

Siamo a Parigi nel 1888, precisamente nei giorni dell’Esposizione Universale. Dililì, una bimba di origine franco-canaca, giunge nella capitale francese direttamente dal suo paese d’origine, la Nuova Caledonia e si imbatte in Orel, un giovane facchino con cui farà subito amicizia. I due verranno coinvolti in un grande mistero che affligge la città: molte bambine sono state rapite da un gruppo di criminali denominato “I Maschi Maestri” e Dililì, con l’aiuto di molteplici personalità tenterà di sciogliere il mistero che si cela dietro a questi rapimenti.

Appare chiaro fin da subito che la volontà di ambientare questo film in quel determinato periodo storico ed in quella specifica città sono un mero espediente per mettere in bella mostra una serie infinita di luoghi, celebrità e volti noti della Francia di fine ‘800. Dililì, nel suo affannarsi per sciogliere il mistero che affligge Parigi, incontra più o meno casualmente personalità del calibro di Toulouse Lautrec ed Edgar Degas, Marcel Proust e Sarah Bernard, Marie Curie e Louis Pasteur. Questi sono solo alcuni dei nomi che mi vengono in mente, solo alcune delle persone che questa bambina incontra nelle sue scorribande. Senza dimenticare che Dililì, in appena 95 minuti di pellicola, andrà all’Opera di Parigi, salirà sulla Tour Eiffel ed entrerà al Moulin Rouge (quale bambina a quegli anni non entrava allegramente nel locale del noto quartiere a luci rosse di Pigalle, verrebbe da chiedersi).

Quindi che cos’è, secondo il mio parere, a non funzionare nella struttura della trama? Capisco la sospensione dell’incredulità, è vero che siamo comunque davanti ad un film di fantasia, ma la storia sembra un po’ un’accozzaglia di riferimenti alla Parigi di fine ‘800 messi in vetrina, una sequenza di momenti che già presi singolarmente appaiono abbastanza inverosimili ma che riuniti in un unico film sono quasi insensati. Sebbene le persone che Dililì incontra, o i luoghi in cui si reca, sono utili al suo scopo finale, a volte si generano delle dinamiche (passatemi il termine) un po’ “tirate”. Personalmente considero Ocelot un abile regista visionario ed un uomo di elevata cultura, ma credo che in questo film non sia riuscito a trovare la giusta chiave per sfruttare al meglio, ai fini della trama, il nutrito ventaglio di volti e luoghi che il contesto della belle époque consentiva di usare.

Tuttavia ho trovato un elemento della trama davvero audace, presente in maniera sottile fin dal principio ma che solo nella conclusione del film si innesca in maniera davvero potente: il tema della misoginia e del ruolo della donna nella società. Nella seconda parte del film, quando Dililì entra in contatto con I Maschi Maestri, lo spettatore non può rimanere indifferente davanti alla potenza di certe immagini e al significato che esse hanno: donne, anzi, ragazze costrette a strisciare, considerate inferiori in quanto femmine, obbligate a servire e sostenere (anche letteralmente) gli uomini, coperte, nascoste nell’ombra (lontane dalla luce e dalla conoscenza). Visivamente potentissimo, profondo come pochi film d’animazione sono stati in grado di essere negli ultimi anni e, se ci pensate, tremendamente attuale se consideriamo il ruolo della donna nella società dei giorni nostri.

E proprio alla potenza di certe immagini vorrei riallacciarmi per parlare dell’aspetto visivo di questo film, che personalmente ho trovato stupefacente e appagante oltre ogni mia aspettativa.

Temevo che un intero lungometraggio con la tecnica usata in questo film potesse in qualche modo annoiarmi, lo ritenevo maggiormente adatto ad un cortometraggio o, semmai, a una serie tv (magari con puntate di 20-30 minuti). Non so di preciso da cosa nascesse questo mio pregiudizio, tuttavia è stato completamente spazzato via dopo i primi minuti. Certo, anche qui una pecca c’è, ovvero il fatto che le animazioni sono davvero troppo limitate, ed il character design dei vari personaggi è forse un po’ piatto, ma gli sfondi e i colori utilizzati mi hanno completamente conquistato e la potenza immaginifica di Ocelot è di altissimo livello. Dalle fogne agli interni dei palazzi, dalle campagne ai tramonti visti dalla Tour Eiffel, le immagini di questo film sono uno splendido omaggio a Parigi in tutta la sua bellezza.

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